Il buco nero del fermo di polizia giudiziaria. L'immagine terribile dell'indiziato bendato ed ammanettato
30-07-2019 16:53 - Diritto
Premesso che il dolore per il sacrificio, nell’adempimento del proprio dovere, del vicebrigadiere dei Carabinieri di Somma Vesuviano è recente ed è profondo dobbiamo necessariamente condannare le modalità con le quali, come attestato dall’immagine pubblicata ormai in tutto il mondo, è stato condotto l’interrogatorio di uno degli indagati per l’omicidio del Carabiniere avvenuto a Roma qualche giorno fa. Ammanettato e con le mani dietro la sedia, bendato, senza un avvocato e senza interprete nonostante si tratti pacificamente di cittadino di lingua straniera. Tutti vizi che non solo rendono inefficace ed inutilizzabile qualsiasi dichiarazione resa dall’indagato, ma che rappresentato gravissimi violazioni da parte dei Carabinieri che in quel momento avevano funzioni di Polizia Giudiziaria. Uno Stato di diritto ha delle regole per la ricerca dei colpevoli che devono essere rispettate , sempre e comunque, e da tutti. Non sono ammesse eccezioni. Venir meno a questi principi significa sprofondare subito in un paese incivile. Nessuno poi deve pensare che si tratta di un caso isolato, magari giustificato dalla rabbia di un momento! Una cosa del genere può accadere ancora e può colpire anche un innocente, magari uno qualunque, uno normale cittadino. Diversi sono i casi di precedenti giudiziari frutto di comportamenti sbagliati avuti dalla Polizia Giudiziaria che hanno avuto pesanti conseguenze per l’indagato e per la Giustizia. Quello più drammatico, anche se meno noto rispetto ad esempio al caso della Knox di Perugia vicenda comunque controversa, riguarda il caso della strage di Alacamo. Nel 1976 nella piccola cittadina siciliana furono uccisi due giovani Carabinieri, le indagini affidate agli stessi Carabinieri, portarono a diverse condanne , divenute anche definitive. Solo dopo molti anni e quando ormai uno dei condannati aveva effettivamente scontato oltre 20 anni , uno dei Carabinieri che aveva condotto l’interrogatorio denuncia di aver praticato delle vere e proprie torture per estorcere la confessione all’indagato, poi condannato definitivamente. Dopo decenni il processo di revisione annulla le condanne , ma intanto uno dei condannati, Leo Gullotta, ha già scontato 20 anni di carcere. Si tratta di un caso noto e conoscendo i famosi numeri neri della giustizia è possibile ipotizzare che altre vicende simili si siano verificate senza che mai alcuno abbia potuto conoscere la verità. Questa volta la prova fotografica ferma un momento evidente di condotte illegali. Un istante che ritrae almeno un paio di reati in corso. L’opinione pubblica, l’intero sistema giudiziario e sicuramente il mondo forense deve far sentire la propria voce ed evitare che questo non succeda più. Non possono essere consentiti buchi neri dal momento in cui un indagato, perde la libertà, e passa nella custodia dello Stato. Probabilmente una soluzione potrebbe essere quella di anticipare le tutele difensive già nella fase del fermo. Proprio in questa fase , quello del fermo d’indiziato di delitto, sia in stato di flagranza di reato che oltre la flagranza, si riscontrano maggiori problemi in relazione all’effettiva fruizione dei diritti posti a tutela degli indagati. Un momento , quello del fermo, che può trasformarsi in un buco nero, privo di garanzie e di diritti per l’indiziato di delitti. Gli può accadere, nel migliore dei casi, di essere videoripreso mentre parla con congiunti o con correi lasciandosi scappare commenti o altro poi utilizzati contro di lui , ma esistono anche documentati casi di drammatici abusi. Casi di cronaca hanno fatto emergere possibili abusi da parte degli agenti di P.G. proprio all’atto del fermo dell’indiziato , si pensi al caso Cucchi, percosso a morte secondo gli inquirenti, proprio mentre era in stato di fermo. Lo stesso caso Gullotta , citato in precedenza, ha evidenziato violenze da parte della P.G. in occasione del fermo poi sfociate in una confessione costretta. Spesso , nella pratica forense, si riscontra la prassi delle forze dell’ordine di notiziare il difensore alla fine del compimento delle operazioni di fermo dopo interrogatori o colloqui tra l’indagato e le forze dell’ordine nel frattempo intercorsi senza la presenza del difensore neppure quello d’ufficio.
Naturalmente è inutile dire che battersi perché vengano rispettati diritti costituzionali cristallizzati anche in trattati internazionali come principi fondamentali di civiltà non significa essere ostili o contrari all’attività delle forze dell’ordine ed in questo caso dei Carabinieri ai quali anzi va il nostro plauso per il quotidiano impegno e per lo spirito di servizio che dimostrano nell’adempimento del dovere. Non a caso il problema è stato correttamente individuato in sede di operazioni di polizia giudiziaria che in Italia è una funzione attribuita a tutte le forze dell’ordine e quindi non riguarda un solo corpo di polizia.