30 anni fa la strage di via D'Amelio. La verità è ancora lontana.
18-07-2022 22:10 - Cronaca
Mariano D’Amelio era un magistrato di alto grado che dal 1923 al 1941 era stato Primo Presidente della Corte di Cassazione. In omaggio al magistrato a Palermo era stata dedicata una strada dove al numero 21 è ubicato un condominio residenziale dove, il 18 luglio 1992, abitava la madre di Paolo Borsellino. Il 18 luglio del 1992, una domenica, Palermo è deserta. Il gran caldo ha spinto i residenti ad affollare le spiagge palermitane. Paolo Borsellino decide di recarsi a fare visita all’anziana madre. Il 23 maggio la mafia ha già ucciso con uno spettacolare attentato Giovanni Falcone. In pratica un tratto dell’autostrada che da Capaci porta a Palermo salta per aria per via dell’ingente quantitativo di esplosivo nascosto sotto un tunnel che attraversa l’autostrada e che serve per lo scolo delle acque piovane. Falcone muore anche per estrema sfortuna. I mafiosi avevano sbagliato il calcolo per azionare l’esplosivo e la deflagrazione investe in pieno la prima automobile, una croma, del convoglio. Il veicolo che salta in aria ed è scaraventato a centinaia di metri di distanza è quello della scorta. Il veicolo di Falcone, che segue, invece urta contro il muro di detriti che si solleva per effetto dell’esplosione. Falcone e la moglie, Francesca Morvillo, urtano violentemente con la testa contro il parabrezza del loro veicolo. Falcone ha voluto guidare egli stesso l’automobile facendo accomodare la moglie sul sedile anteriore, mentre l’autista del ministero si accomoda sul divano posteriore. L’autista si salverà ed è tutt’ora in vita. Falcone e la moglie muoiono per effetto delle violente lesioni che si procurano contro il parabrezza, si accerterà che se avessero indossato la cintura di sicurezza probabilmente avrebbero riportato lesioni, forse anche gravi, ma non mortali. Borsellino vive la tragedia di Capaci come una vicenda personale. E’ molto legato da un’amicizia infantile con Falcone, da ragazzi giocavano insieme ed avevano fatto un percorso di studi e professionale identico. Borsellino non si capacita dei motivi per cui la mafia ha colpito Falcone. Il maxiprocesso, istruito dai due, è una vicenda molto datata. I giornali scrivono che la mafia non perdona, ma Borsellino non è convito. Cerca di scoprire i motivi reali della violenta strage che coincide temporalmente con una serie di vicende. A livello nazionale la magistratura ha scatenato un’offensiva giudiziaria senza precedenti, si capisce subito che sotto i colpi delle inchieste sono destinati a morire i partiti tradizionali, quelli che hanno assicurato per 50 anni libertà e democrazia all’Italia, oltre ad un significativo sviluppo economico, che seppure in maniera difforme, ha avuto benefici per tutto il territorio nazionale. In Sicilia a marzo del 1992 la mafia uccide Salvo Lima, esponente chiacchierato della politica locale. Gli inquirenti immaginano sia l’inizio di una nuova strategia che prevede l’attacco alle istituzioni di cui comunque Lima è un esponente locale. L’attentato particolarmente spettacolare di Capaci indica che la strada scelta è quella di una violenza stragista con fini terroristici. Bisogna spaventare, forse, per trattare in futuro condizioni di favore per i mafiosi. Borsellino comprende che il prossimo obbiettivo è egli stesso. Dopo qualche mese dalla strage di Capaci gli inquirenti vengono a sapere che a Palermo è arrivato un carico di tritolo che serve proprio per attentare alla vita del magistrato amico di Falcone. Borsellino è informato dalla polizia giudiziaria e viene a sapere anche che la notizia è arrivata in Procura, si lamenta con il Procuratore capo di non avergli partecipato la notizia. A distanza di 30 anni dall’attentato consumato proprio mentre il giudice si porta a fare visita alla madre ed annienta tutta la scorta, si salverà miracolosamente solo un agente, numerosi sono gli interrogativi. Se può facilmente intuirsi che gli esecutori e buona parte dei mandati siano stati i vertici della mafia siciliana, Totò Riina, Bernardo Provenzano e gli altri capobastone, non è chiaro perché mai all’indomani della strage la Procura di Caltanissetta con la complicità della squadra mobile di Palermo, guidata da La Barbera, ritenne necessario costruire dei falsi pentiti che si accusavano del furto della 126 che, imbottita di tritolo, esplose uccidendo il giudice e la scorta. Gli addetti ai lavori non potevano non accorgersi che i giovani che si accusavano di fatti così eclatanti erano dei piccoli delinquenti gravati da piccoli precedenti, dei balordi, ma non mafiosi. Occorreranno anno per accertare per via giudiziaria che si era trattato di un grosso depistaggio. Cosa doveva coprire il depistaggio con la creazione del pentito Scarantino che si accusò di aver rubato l’utilitaria? Subito dopo la strage accorsero numerosi fotografi che immortalarono un ufficiale dei carabinieri camminare a passo spedito con in mano la borsa di Borsellino, uscita intatta dall’esplosione. Nella borsa non fu rinvenuta la famosa agenda rossa dove il magistrato aveva l’abitudine di annotare qualsiasi cosa. Ulteriore mistero. Sono poi stati istruiti processi che hanno raccontato di una trattativa tra la mafia e lo Stato, non più quello governato dai partiti tradizionali nel frattempo annientati dalla bomba tangentopoli,ma ad oggi le sorti del dibattimento sono state altalenanti ed ancora non è stata emessa una sentenza definitiva. In questa ipotesi le stragi di Capaci e via D’Amelio sarebbero parte di una strategia più complessa che avrebbe costretto lo Stato a trattare con la mafia. In questa ricostruzione Totò Riina sarebbe stato consegnato da Provenzano che avrebbe conseguito l’impunità in cambia di un occultamento di Cosa Nostra, niente più omicidi ed attentati. Solo un cancro terminale avrebbe convinto Provenzano a farsi arrestare per ricevere cure ospedaliere non più possibili da latitante.
riproduzione riservata - citare sempre l'autore.