Dichiarata incostituzionale la censura della corrispondenza con il difensore del detenuto ristretto all’art. 41 bis.
23-02-2022 19:53 - Diritto
Rese note le motivazioni della sentenza sentenza 2 dicembre 2021 (dep. 24 gennaio 2022), n. 18 che hanno portato la Corte Costituzionale ad integrare il famigerato art.41 bis della legge sull'ordinamento penitenziario dichiarando l'illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori.
La Corte, per l'occasione presieduta dal magistrato Giancarlo Coraggio (già Presidente del Tar di Napoli ed uno dei principali giuristi italiani viventi), ha finalmente stabilito che la disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione – già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 – di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso. Ruolo che, per risultare effettivo, richiede che il detenuto o internato possa di regola comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge o di regolamento che si siano, in ipotesi, ivi consumate.
Il caso
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Corte di cassazione, sezione prima penale, in relazione all'art.41-bis, comma 2-quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), nella parte in cui prevede, per i detenuti sottoposti al regime di cui al comma 2 e seguenti dello stesso art. 41-bis ordin. penit., la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, senza escludere quella indirizzata ai difensori.
La normativa previgente.
La Corte ha evidenziato che prima dell'entrata in vigore della legge 8 aprile 2004, n. 95 (Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti), l'art. 18 ordin. penit. prevedeva genericamente la possibilità di sottoporre la corrispondenza di detenuti e internati a «visto di controllo» da parte dell'amministrazione penitenziaria o, a seconda dei casi, da parte della stessa autorità giudiziaria, sulla base di un provvedimento di quest'ultima.
Nel 1989, l'art. 103, comma 6, del codice di procedura penale è intervenuto a vietare espressamente il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra gli imputati – ancorché detenuti o internati – e i propri difensori, salvo che nell'ipotesi in cui l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato, e sempre che siano state osservate le formalità prescritte dall'art. 35 delle Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, finalizzate ad assicurare la riconoscibilità di tale corrispondenza per l'amministrazione penitenziaria.
La disciplina sopravvenuta non concerneva invece, quanto meno in base al suo tenore letterale, la posizione dei detenuti o internati già condannati con sentenza definitiva.
La legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario) introdusse quindi il comma 2-quater nell'art. 41-bis ordin. penit. nella sua versione originaria, la disposizione stabiliva che la sospensione delle regole di trattamento ordinario per effetto del provvedimento ministeriale di cui al precedente comma 2-bis «può comportare» la serie di misure di seguito elencate, tra cui quella – prevista alla lettera e) censurata – della «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia». Restava non chiarito espressamente come questa nuova disposizione si coordinasse con la previsione generale, poc'anzi menzionata, relativa al controllo della corrispondenza di cui all'art. 18 ordin. penit., nonché con i divieti di controllo della corrispondenza dell'imputato stabiliti dall'art. 103, comma 6, cod. proc. pen., di cui parimenti si è detto.
Nel frattempo, la disciplina dello stesso art. 18 ordin. penit. era stata più volte ritenuta incompatibile con l'art. 8 CEDU da parte della Corte di Strasburgo, in ragione dell'inadeguatezza della base legale della limitazione del diritto alla riservatezza della corrispondenza del detenuto, non essendo stabiliti dalla legge né la possibile durata delle misure di controllo della corrispondenza, né i presupposti, l'ampiezza e le modalità di esercizio della discrezionalità delle autorità competenti a disporle (Corte EDU, sentenze 15 novembre 1996, Calogero Diana contro Italia, paragrafo 33; 15 novembre 1996, Domenichini contro Italia, paragrafo 33; grande camera, 6 aprile 2000, Labita contro Italia paragrafo 184; 9 gennaio 2001, Natoli contro Italia, paragrafo 46; nonché, con riferimento alla situazione normativa antecedente al 2004, sentenze 11 gennaio 2005, Musumeci contro Italia, paragrafo 58; 7 luglio 2009, Salvatore Piacenti contro Italia, paragrafo 19; 1° dicembre 2009, Stolder contro Italia, paragrafo 34).
Proprio per ovviare alle lacune di disciplina evidenziate dalla Corte EDU, la legge n. 95 del 2004 riformò la disciplina generale sulle limitazioni e i controlli della corrispondenza dei detenuti e internati, introducendo il nuovo art. 18-ter ordin. penit. e abrogando contestualmente i commi settimo e nono dell'art. 18 nella versione allora vigente, nonché il riferimento alla corrispondenza contenuto nel comma ottavo dello stesso articolo nella versione allora vigente (su tale vicenda normativa e sul «delicato punto di equilibrio raggiunto dal legislatore» con il nuovo art. 18-ter ordin. penit., in linea con le sollecitazioni della Corte EDU, sentenza n. 20 del 2017 di questa Corte).
La nuova disposizione prevede, in particolare, la possibilità per l'autorità giudiziaria competente ai sensi del comma 3 – in presenza di «esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell'istituto» – di disporre nei confronti di singoli detenuti o internati, per periodi non superiori a sei mesi, prorogabili per successivi periodi non superiori a tre mesi, tre distinte misure, di impatto decrescente rispetto al diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza: a) limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa; b) la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo; c) il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima (comma 1).
La legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha, infine, modificato il comma 2-quater dell'art. 41-bis ordin. penit., disponendo che il provvedimento ministeriale applicativo del regime differenziato disciplinato dallo stesso art. 41-bis «prevede» – anziché, come in precedenza, «può comportare» – le misure elencate di seguito, tra le quali la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza di cui alla lettera e), che viene in questa sede in considerazione.
Come si evince dalla ricostruzione che precede, il legislatore non ha mai espressamente chiarito quale rapporto intercorra tra la previsione della «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza» dei detenuti e internati in regime di cui all'art. 41-bis ordin. penit. e la disciplina sui «controlli della corrispondenza» applicabile alla generalità dei detenuti e internati, contenuta oggi nell'art. 18-ter ordin. penit.
La decisione.
La normative esistente, sottolinea la Consulta, viola la costituzione in particolare l'art.24. Il diritto alla difesa deve essere inteso come «principio supremo» dell'ordinamento costituzionale (sentenze n. 238 del 2014, n. 232 del 1989 e n. 18 del 1982) – comprende il diritto, ad esso strumentale, di conferire con il difensore (sentenza n. 216 del 1996), «allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall'ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti» (sentenza n. 212 del 1997); ed ha altresì evidenziato come tale diritto «assuma una valenza tutta particolare nei confronti delle persone ristrette in ambito penitenziario, le quali, in quanto fruenti solo di limitate possibilità di contatti interpersonali diretti con l'esterno, vengono a trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all'esercizio delle facoltà difensive» (sentenza n. 143 del 2013).
Non v'è dubbio che la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza con il proprio difensore, discendente dalla disposizione censurata, costituisca una vistosa limitazione del diritto in questione. La procedura di visto comporta, infatti, l'apertura della corrispondenza da parte dell'autorità giudiziaria o dell'amministrazione penitenziaria delegata, la sua integrale lettura e il suo eventuale “trattenimento” – ossia la mancata consegna al destinatario, sia questi il difensore o lo stesso detenuto o internato. Tale procedura comporta dunque in ogni caso, oltre a un rallentamento della consegna della corrispondenza, il venir meno della sua segretezza; e può determinare, altresì, l'impedimento radicale della comunicazione, sulla base del giudizio discrezionale dell'autorità che esercita il controllo.
Insomma la questione sembrava davvero di facile soluzione essendo davvero evidente che la censura della corrispondenza con il difensore del detenuto sottoposto al regime del 41 bis ord.pen è apertamente in contrasto con il supremo diritto di difesa, accordato dalla Carta costituzionale, a tutti con la qualifica di diritto inviolabile, eppure solo a distanza di anni è stato riconosciuto il diritto dal giudice delle leggi. Questo è il dato che deve lasciar riflettere rispetto all'effettività dei diritti difensivi nel nostro ordinamento. Finalmente, poi, la Corte Costituzionale condanna, apertis verbis, il pensiero che è sotteso ad una simile normativa in relazione alla professione forense. Prevedere che la corrispondenza con il difensore sia soggetta a censura presuppone proprio che l'avvocato sia colluso con il proprio cliente e questo fatto è davvero inaccettabile.
La Corte, per l'occasione presieduta dal magistrato Giancarlo Coraggio (già Presidente del Tar di Napoli ed uno dei principali giuristi italiani viventi), ha finalmente stabilito che la disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione – già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 – di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso. Ruolo che, per risultare effettivo, richiede che il detenuto o internato possa di regola comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge o di regolamento che si siano, in ipotesi, ivi consumate.
Il caso
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Corte di cassazione, sezione prima penale, in relazione all'art.41-bis, comma 2-quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), nella parte in cui prevede, per i detenuti sottoposti al regime di cui al comma 2 e seguenti dello stesso art. 41-bis ordin. penit., la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, senza escludere quella indirizzata ai difensori.
La normativa previgente.
La Corte ha evidenziato che prima dell'entrata in vigore della legge 8 aprile 2004, n. 95 (Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti), l'art. 18 ordin. penit. prevedeva genericamente la possibilità di sottoporre la corrispondenza di detenuti e internati a «visto di controllo» da parte dell'amministrazione penitenziaria o, a seconda dei casi, da parte della stessa autorità giudiziaria, sulla base di un provvedimento di quest'ultima.
Nel 1989, l'art. 103, comma 6, del codice di procedura penale è intervenuto a vietare espressamente il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra gli imputati – ancorché detenuti o internati – e i propri difensori, salvo che nell'ipotesi in cui l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato, e sempre che siano state osservate le formalità prescritte dall'art. 35 delle Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, finalizzate ad assicurare la riconoscibilità di tale corrispondenza per l'amministrazione penitenziaria.
La disciplina sopravvenuta non concerneva invece, quanto meno in base al suo tenore letterale, la posizione dei detenuti o internati già condannati con sentenza definitiva.
La legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario) introdusse quindi il comma 2-quater nell'art. 41-bis ordin. penit. nella sua versione originaria, la disposizione stabiliva che la sospensione delle regole di trattamento ordinario per effetto del provvedimento ministeriale di cui al precedente comma 2-bis «può comportare» la serie di misure di seguito elencate, tra cui quella – prevista alla lettera e) censurata – della «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia». Restava non chiarito espressamente come questa nuova disposizione si coordinasse con la previsione generale, poc'anzi menzionata, relativa al controllo della corrispondenza di cui all'art. 18 ordin. penit., nonché con i divieti di controllo della corrispondenza dell'imputato stabiliti dall'art. 103, comma 6, cod. proc. pen., di cui parimenti si è detto.
Nel frattempo, la disciplina dello stesso art. 18 ordin. penit. era stata più volte ritenuta incompatibile con l'art. 8 CEDU da parte della Corte di Strasburgo, in ragione dell'inadeguatezza della base legale della limitazione del diritto alla riservatezza della corrispondenza del detenuto, non essendo stabiliti dalla legge né la possibile durata delle misure di controllo della corrispondenza, né i presupposti, l'ampiezza e le modalità di esercizio della discrezionalità delle autorità competenti a disporle (Corte EDU, sentenze 15 novembre 1996, Calogero Diana contro Italia, paragrafo 33; 15 novembre 1996, Domenichini contro Italia, paragrafo 33; grande camera, 6 aprile 2000, Labita contro Italia paragrafo 184; 9 gennaio 2001, Natoli contro Italia, paragrafo 46; nonché, con riferimento alla situazione normativa antecedente al 2004, sentenze 11 gennaio 2005, Musumeci contro Italia, paragrafo 58; 7 luglio 2009, Salvatore Piacenti contro Italia, paragrafo 19; 1° dicembre 2009, Stolder contro Italia, paragrafo 34).
Proprio per ovviare alle lacune di disciplina evidenziate dalla Corte EDU, la legge n. 95 del 2004 riformò la disciplina generale sulle limitazioni e i controlli della corrispondenza dei detenuti e internati, introducendo il nuovo art. 18-ter ordin. penit. e abrogando contestualmente i commi settimo e nono dell'art. 18 nella versione allora vigente, nonché il riferimento alla corrispondenza contenuto nel comma ottavo dello stesso articolo nella versione allora vigente (su tale vicenda normativa e sul «delicato punto di equilibrio raggiunto dal legislatore» con il nuovo art. 18-ter ordin. penit., in linea con le sollecitazioni della Corte EDU, sentenza n. 20 del 2017 di questa Corte).
La nuova disposizione prevede, in particolare, la possibilità per l'autorità giudiziaria competente ai sensi del comma 3 – in presenza di «esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell'istituto» – di disporre nei confronti di singoli detenuti o internati, per periodi non superiori a sei mesi, prorogabili per successivi periodi non superiori a tre mesi, tre distinte misure, di impatto decrescente rispetto al diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza: a) limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa; b) la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo; c) il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima (comma 1).
La legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha, infine, modificato il comma 2-quater dell'art. 41-bis ordin. penit., disponendo che il provvedimento ministeriale applicativo del regime differenziato disciplinato dallo stesso art. 41-bis «prevede» – anziché, come in precedenza, «può comportare» – le misure elencate di seguito, tra le quali la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza di cui alla lettera e), che viene in questa sede in considerazione.
Come si evince dalla ricostruzione che precede, il legislatore non ha mai espressamente chiarito quale rapporto intercorra tra la previsione della «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza» dei detenuti e internati in regime di cui all'art. 41-bis ordin. penit. e la disciplina sui «controlli della corrispondenza» applicabile alla generalità dei detenuti e internati, contenuta oggi nell'art. 18-ter ordin. penit.
La decisione.
La normative esistente, sottolinea la Consulta, viola la costituzione in particolare l'art.24. Il diritto alla difesa deve essere inteso come «principio supremo» dell'ordinamento costituzionale (sentenze n. 238 del 2014, n. 232 del 1989 e n. 18 del 1982) – comprende il diritto, ad esso strumentale, di conferire con il difensore (sentenza n. 216 del 1996), «allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall'ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti» (sentenza n. 212 del 1997); ed ha altresì evidenziato come tale diritto «assuma una valenza tutta particolare nei confronti delle persone ristrette in ambito penitenziario, le quali, in quanto fruenti solo di limitate possibilità di contatti interpersonali diretti con l'esterno, vengono a trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all'esercizio delle facoltà difensive» (sentenza n. 143 del 2013).
Non v'è dubbio che la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza con il proprio difensore, discendente dalla disposizione censurata, costituisca una vistosa limitazione del diritto in questione. La procedura di visto comporta, infatti, l'apertura della corrispondenza da parte dell'autorità giudiziaria o dell'amministrazione penitenziaria delegata, la sua integrale lettura e il suo eventuale “trattenimento” – ossia la mancata consegna al destinatario, sia questi il difensore o lo stesso detenuto o internato. Tale procedura comporta dunque in ogni caso, oltre a un rallentamento della consegna della corrispondenza, il venir meno della sua segretezza; e può determinare, altresì, l'impedimento radicale della comunicazione, sulla base del giudizio discrezionale dell'autorità che esercita il controllo.
Insomma la questione sembrava davvero di facile soluzione essendo davvero evidente che la censura della corrispondenza con il difensore del detenuto sottoposto al regime del 41 bis ord.pen è apertamente in contrasto con il supremo diritto di difesa, accordato dalla Carta costituzionale, a tutti con la qualifica di diritto inviolabile, eppure solo a distanza di anni è stato riconosciuto il diritto dal giudice delle leggi. Questo è il dato che deve lasciar riflettere rispetto all'effettività dei diritti difensivi nel nostro ordinamento. Finalmente, poi, la Corte Costituzionale condanna, apertis verbis, il pensiero che è sotteso ad una simile normativa in relazione alla professione forense. Prevedere che la corrispondenza con il difensore sia soggetta a censura presuppone proprio che l'avvocato sia colluso con il proprio cliente e questo fatto è davvero inaccettabile.
riproduzione riservata ---citare sempre la fonte studio legale Avvocato Salvatore Piccolo