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L'influenza Spagnola, ultima pandemia prima del coronavirus.

23-04-2020 12:59 - Storia

In tempo di piena pandemia da Coronavirus, malattia causata da un virus nuovo senza che la scienza abbia possibilità di determinarne natura e conseguenze oltre che terapie definitive , crediamo di fare cosa utile pubblicando un modesto compendio, con in calce le fonti storiche, relativo alla influenza “spagnola” sicuramente l’unico precedente simile di pandemia . Per una migliore fruibilità e lettura lo scritto è pubblicato anche in formato pdf in calce a questo articolo.

Antefatto.

Unificata la Germania nel 1871, le nazioni europee sprofondarono in un conflitto politico ed economico. Alla fine del XIX secolo la Germania iniziò la sua ascesa come potenza economica, raggiungendo l’Inghilterra e la Francia. Ebbero inizio cosi le discussioni per il mercato economico che, insieme al rafforzamento dello spirito nazionalista, provocarono nuovi conflitti.
Dopo la Rivoluzione Francese e l’era di Napoleone, la popolazione europea capì che popoli con la stessa origine etnica, la stessa lingua e gli stessi ideali politici possedevano comunque identità nazionali indipendenti. Nel 1831 il Belgio conquistò la sua indipendenza dai Paesi Bassi e l’Italia fu unificata nel1861. Questi movimenti riflettevano e intensificavano il nazionalismo vissuto dall’Europa, disprezzato dalle monarchie, aumentando i conflitti nelle località di frontiera dei paesi dove convivevano gruppi diversi.
L’imperialismo era una necessità economica delle nazioni per conquistare il proprio mercato di consumo e, soprattutto, la sua fonte di materia primaper l’industria. Nello stesso tempo era una manifestazione del nazionalismo vigente in Europa. La disputa economica fra queste regioni segnava gli scontri,soprattutto in Africa. La Francia manteneva conflitti con l’Inghilterra ed entrambe, a loro volta, con la Germania. A poco a poco furono realizzate delle alleanze politiche che andarono a formare da un lato l’unione di Russia,Inghilterra e Francia, e dall’altro quella tra Germania, Impero austroungarico e Italia che aveva da poco realizzato l’unità pure senza i territori, ad ampia maggioranza italiana, di Trieste e Trento.
All’inizio del XX secolo vari conflitti internazionali intensificarono la rivalità tra le nazioni e le forze militari. Nel 1905 la Germania appoggio l’indipendenza del territorio del Marocco sotto il dominio francese e lo scontro fu evitato da una conferenza internazionale. Nel 1908, l’Impero austro-ungarico annetteva il territorio della Bosnia, rivendicato dal movimento nazionalista della Serbia: la guerra tra la le due realtà politiche fu evitata dal momento che la Russia non era in grado di allearsi alla Serbia. Nel 1911 le pretese in Marocco fecero si che la Germania inviasse navi da guerra sul litorale, raffreddando il conflitto grazie all’intervento di altri paesi. Nel 1912 ebbe inizio uno scontro sui Balcani, con la Serbia che lottava per i territori sotto il dominio dell’Impero austro-ungarico abitati da popolazioni slave.
Alla fine il pretesto per la guerra fu dato nel giugno 1914. Il successore al trono austro-ungarico, Francesco Ferdinando, in visita al territorio bosniaco,fu assassinato. L’impero attribuì il gesto al movimento nazionalista della Serbia e dichiarò guerra alla nazione. Come una cascata, il conflitto avrebbe fatto entrare paesi alleati da entrambi i lati, causando la generalizzazione del conflitto.

L’epidemia di tifo durante la prima guerra mondiale.

Il tifo, all’epoca terribile malattia, non spaventava più la popolazione mondiale dalla fine del XIX secolo e rimaneva sotto controllo: diverse regioni registravano casi sporadici e anche piccole epidemie, ma sempre di dimensioni non allarmanti. Soltanto un’area rimaneva endemica, con tassi annuali di contagio considerevoli: l’Est europeo. La Russia presentava una media di novantamila casi all’anno. Qualsiasi situazione storica che causasse fame e guerra, con accentramento di persone e proliferazione di pidocchi, poteva creare le condizioni favorevoli per un’esplosione di tifo, che presto sarebbe degenerata in un disastro. Le forze dell’Impero austro-ungarico iniziarono il loro attacco alla Serbia,bombardando e accerchiando Belgrado, e alla fine presero possesso della città nel novembre del 1914. Mentre gli austriaci commemoravano l’invasione di questo territorio, i civili e i militari della Serbia si stabilirono al Sud, in condizioni favorevoli all’esplosione di un’ondata di tifo. A novembre, l’epidemia scoppio tra le popolazioni della Serbia, che, nel mese seguente, lanciò un contrattacco all’esercito austriaco e prese nuovamente possesso della città
di Belgrado. Ma la situazione della regione era differente: le città erano in rovina, non avevano locali adatti a ricoverare i pazienti; la popolazione viveva in alloggi improvvisati e sovraffollati; c’erano numerosi prigionieri austriaci, spesso affetti da tifo, per un totale di sessantamila soldati. Questi uomini venivano mandati nelle prigioni della Serbia su treni stipati, gli eserciti serbi venivano trasferiti in aree diverse e la popolazione pellegrinava alla ricerca di condizioni di vita migliori.
Il tifo si diffuse con grande velocità durante l’inverno del 1915, nei mesi di febbraio e marzo, raggiungendo il suo picco in aprile. Il tasso di mortalità arrivò al 60 percento: centocinquantamila persone morirono in soli sei mesi.
I casi erano stimati sui seimila al giorno nelle diverse regioni della Serbia e
includevano militari e civili. Il numero di medici sul territorio serbo diminuì a causa del tifo: di trecentocinquanta, ne morirono centoventisei; alcuni ospedali persero fino all’80 percento dei loro medici. Metà dei prigionieri austriaci morì sul campo, stroncata dal male. Le operazioni militari della Serbia furono sospese per favorire il controllo della malattia attraverso varie misure sanitarie volte a combattere i pidocchi (riconosciuti come causa deltifo dal 1909), che però non impedirono la morte del 25 percento dell’esercito.
Perciò, la forza austriaca non poté proseguire la sua invasione e la guerra in questa frontiera orientale rimase sospesa per sei mesi.
La Russia soffrì varie sconfitte presso il confine con la Germania e l’Impero austro-ungarico, vedendosi obbligata a tornare sui suoi passi e perdendo territori. I soldati rimasero nelle trincee, dove avevano più paura della diffusione dei pidocchi che della guerra stessa. Nel primo anno di scontro, in Russia si verificarono centomila casi di tifo; dopo le sconfitte del 1916, con la ritirata dell’esercito, il numero di casi raggiunse i centocinquantamila. Ma sarebbe stato tra gli anni 1917 e 1921 che la popolazione avrebbe maggiormente sofferto a causa dell’epidemia, registrando un totale di 30 milioni di colpiti. Nelle città russe lo scontento della popolazione cresceva con la scarsità degli alimenti, l’aumento dei prezzi e le sconfitte di guerra. Fame, miseria e malattie si diffondevano in campagna e in città. Non potendo più sopportare la situazione, lo zar Nicola II fù obbligato ad abdicare nel marzo del 1917 e venne
sostituito da un governo provvisorio. Il nuovo governo e quello successivo non furono capaci di risolvere i problemi, la guerra continuo e, nel novembre dello stesso anno, scoppià la Rivoluzione bolscevica. Lenin, che organizzava la riscossa socialista, comandava la formazione della Guardia Rossa armata, che entrò in azione durante la rivoluzione di novembre. Assunse il potere e cercò di firmare un accordo di pace, quello che la popolazione stava chiedendo.
Con Lenin al comando, i bolscevichi cominciarono a riformare il sistema politico ed economico della Russia, che avrebbe portato a una guerra civile e promosso condizioni di vita adeguate alla persistenza delle epidemie di tifo. I terreni agricoli furono nazionalizzati e distribuiti ai contadini, gli stabilimenti industriali e le banche prese dal governo, il controllo delle fabbriche trasferito nelle mani degli operai. Non si fecero attendere molto gli oppositori alregime di Lenin, tra i quali capitalisti e proprietari di fabbriche, industrie e terreni, che schierarono nelle proprie file diversi sostenitori. Cominciava così la guerra civile tra l’esercito rosso e i controrivoluzionari, chiamati Bianchi.
Il terrore si diffuse in tutta la Russia: ogni persona sospetta di essere contraria
al regime fu imprigionata o assassinata. Soltanto nel 1922 la guerra civile giunse alla fine, lasciando però la Russia in una grave crisi economica. Dalle sconfitte dell’esercito russo nel 1916, passando per la Rivoluzione bolscevica di Lenin, fino al 1923, la popolazione affrontò miseria, fame, denutrizione e condizioni insalubri di vita, mentre venivano costruiti settantamila campi di concentramento per i prigionieri politici.1 Queste circostanze contribuirono alla diffusione dei pidocchi e il tifo colpì 30 milioni di persone, uccidendone 3 milioni: fu una delle peggiori epidemie della storia.

L’influenza “spagnola”

Il 1918 segnò le costanti sconfitte della Germania e dell’Impero austroungarico: i territori vennero conquistati uno dopo l’altro dalle forze avversarie. L’11 novembre fu firmato il trattato che mise fine alla Prima Guerra Mondiale, con la sconfitta delle forze centrali dell’Europa, costrette a cedere a una serie di condizioni imposte dal Trattato di Versailles, responsabile della crisi che avrebbe provocato la Seconda guerra mondiale qualche anno dopo. Nella storia dell’umanità il virus dell’influenza aveva causato diverse epidemie, sebbene il suo tasso di mortalità fosse sempre stato basso e dovuto a complicazioni come la polmonite, che colpiva i bambini della fascia di età più bassa e gli anziani. Il 1918 segnò la nascita di un nuovo virus dell’influenza con un potere invasivo maggiore, che si sparse in tutto il mondo causando tassi di mortalità mai visti prima anche tra i giovani. Essendo comparsa nell’ultimo anno di guerra, la sua disseminazione fu facilitata dallo spostamento dei militari. Circa un quinto della popolazione mondiale fu colpita dalla malattia tra il 1918 e il 1919, con un tasso di mortalità dallo 0,5 all’1,2 percento, il che significò la morte di circa 22 milioni di persone, molte piu degli 8 milioni di combattenti in guerra. Il tasso di mortalita variava di regione in regione: fu molto piu alto nelle aree in cui la malattia non era mai comparsa e in cui le persone non avevano dunque alcun tipo di immunità. Cosi, mentre negli Usa lo 0,5 percento della popolazione moriva, a Samoa la percentuale arrivava al 25; in Alaska diversi villaggi eschimesi furono decimati; l’India, la principale vittima dell’influenza, perse 12 milioni di abitanti. Nonostante il numero ufficiale si aggiri sui 22 milioni, si ipotizza un numero maggiore a causa della difficoltà di registrare i morti nei paesi dell’Africa, in Russia e nelle regioni dell’Asia.
La prima ondata americana dell’epidemia di influenza avvenne nella primavera del 1918: ebbe inizio a marzo tra i militari del campo Funston, nel Kansas, causando un numero imprecisato di vittime. Non si sa per certo l’origine dell’epidemia, ma si crede che sia apparsa negli Stati Uniti o in Asia.Si diffuse nel mondo, raggiungendo i paesi europei nell’estate dello stesso anno e, successivamente, tutti i continenti. Arrivata in Spagna, la malattia contagiò circa 8 milioni di persone. A Madrid un abitante su tre ne fu colpito, episodio che creo il caos in città; lo stesso re di Spagna (Alfonso XIII di borbone , nonno di Juoan Carlos e bisnonno dell’attuale regnate) si ammalò. Le agenzie spagnole diramarono all’estero la gravità della nuova epidemia che stava affliggendo il paese, mettendo in allerta la comunita mondiale, il che contribuì alla sua denominazione di “influenza spagnola”.
Quando la malattia si era già disseminata nel mondo, arrivò la seconda ondata di epidemia, che fu ancora piu devastante. Cominciò nel mese di agosto del 1918 simultaneamente negli Stati Uniti, in Europa e nella costa occidentale dell’Africa. Freetown, in Sierra Leone, ricevette il virus attraverso le imbarcazioni inglesi in agosto, e in un mese questo raggiunse due terzi della popolazione, uccidendo il 3 percento dei contagiati. Nelle città degli Stati Uniti l’influenza si diffuse a Boston, ma gli accampamenti militari sovraffollati di soldati pronti a essere mandati in Europa furono i vettori di maggiore diffusione.
Nell’autunno del 1918 la seconda ondata dell’epidemia di influenza raggiunse proporzioni allarmanti nell’Europa in guerra e negli altri quattro continenti.
Uno dei racconti che descrivono meglio la furia dell’influenza e la narrazione delle vicende di una truppa militare americana che si dirigeva alla lotta armata in Europa. L’epidemia si sviluppò tra i militari della fanteria, che si preparavano per una missione in Francia.
Lungo la loro marcia dal New Jersey a New York, dove si sarebbero imbarcati, cominciarono a contarsi i primi malati, che furono abbandonati per strada. Arrivando a New York, coloro che non erano stati colpiti dalla malattia, un totale di novemila soldati, si imbarcarono sulla nave Leviathan verso la zona orientale della Francia, il 29 settembre. Ma, nelle prime trentasei ore di viaggio, erano già circa settecento i militari contagiati e fu registrato il primo decesso. Il numero di malati crebbe fino a duemila e, dopo soli quattro giorni in mare, aumentò la quantità di morti giornaliera: tre, sette, dieci e ventiquattro, arrivando a trentuno il 7 ottobre, quando, alla fine, la Leviathan attraccò nella città francese di Brest. Durante il viaggio, i morti venivano
lanciati in mare senza essere identificati, mentre le stanze poco arieggiate si riempivano di infermi e persino di alcuni cadaveri che aspettavano di essere rimossi. Il panico si impossessò delle persone, che si rifiutavano di pulire il pavimento sporco del sangue provocato dalle emorragie, per la paura del contagio. L’influenza continuava a diffondersi tra i militari in marcia in tutta Europa. Il tasso di mortalità raggiunse l’apice nel mese di ottobre del 1918: gli americani ricoverarono circa quarantacinquemila uomini negli ospedali di guerra, di cui il 10 percento morì. I tedeschi persero duecentoventicinquemila persone. La città di Damasco ebbe difficoltà nel resistere all’attacco degli alleati a causa dello stato di salute dei turchi, colpiti dall’influenza. In Italia la malattia uccise trecentosettantacinquemila abitanti, con la città di Torino che contava quattrocento morti al giorno. A Parigi ci furono cinquemila deceduti a settimana; in Inghilterra il numero di morti raggiunse le
duecentoventottomila unità.
Negli Usa la malattia toccà tutti gli stati. Nel momento peggiore dell’epidemia, a Philadelphia morirono circa settemila persone in due settimane. Il numero di deceduti eccedeva la quantita di bare pronte per le sepolture, così furono adottate misure di emergenza per incrementarne la produzione. Venivano utilizzati carri per portare i corpi dei malati e aumento il numero di bambini orfani nel paese. Il totale di decessi, soltanto negli Usa, fu tra i cinquecentomila e i seicentocinquantamila, ma, considerando che il censimento all’epoca era rudimentale e poco affidabile, questo numero probabilmente fu di gran lunga maggiore.
Alla fine di maggio del 1919 l’influenza arrivò a Bombay portata dalle navi stipate di malati e, attraverso le linee ferroviarie, si sparse in tutta l’India, colpendo più della metà della popolazione. A Bombay in una sola settimana morirono circa millecinquecento persone. La città di Madras si fermò, le scuole sospesero le loro attività per mancanza di alunni sani, i carri furono messi da parte per mancanza di operai che potessero condurli; gli organi pubblici e tutti i servizi rimasero chiusi per lo stesso motivo. La produzione indiana di cotone e juta diminui, contribuendo alla crisi economica. A causa della forza dei monsoni la raccolta fu scarsa, il che provocò carestia e contribuì a far morire molte persone per l’influenza. L’economia mondiale entro in crisi, e diminuì lo sfruttamento dell’oro in Sudafrica, con il fallimento di imprese in tutti i continenti: le piantagioni di caffè in America Centrale furono messe alla prova, la carestia aggravò la situazione nella valle del fiume Gange, in Polonia si smise di coltivare le patate. Senza contare la situazione che viveva l’Europa, appena uscita dalla Prima Guerra Mondiale.

La Spagnola in Italia.

La pandemia di influenza “spagnola” divampò in poche settimane anche in Italia facendo tra le 350.000 e le 600.000 vittime durante l’autunno del 1918. Curiosa coincidenza con l’odierna pandemia da conoronavirus anche nel 1918 l’Italia fu tra i paesi con la maggiore mortalità in Europa assieme al Portogallo (fonte Tognotti E. La “spagnola” in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-1919). Milano: Franco Angeli 2015, II ed.) In quegli anni in Italia, come in tutti i paesi in guerra la censura, instaurata all’inizio del conflitto bellico, fu particolarmente severa e furono gli stessi giornali che, praticando un’attenta autocensura, contribuirono all’oscuramento del problema. Ma la censura non basta per giustificare quanto poco si parlò della Spagnola anche quando l’epidemia continuò ad imperversare nei mesi successivi alla chiusura del conflitto bellico. Ad affiancare la psicosi collettiva, ispirata dalla censura militare, c’era la sdrammatizzazione della morte in quella che fu definita la guerra più sanguinaria della storia dell’umanità. Vi era la rimozione del lutto privato rispetto a quello collettivo, esaltato nella funzione patriottica delle morti, definite all’epoca eroiche e sante, in nome dell’Italia che, ricordiamo, stava terminando il suo ciclo risorgimentale. Un altro elemento non va dimenticato. Il mondo scientifico si era abituato, dopo la rivoluzione pasteuriana, a successi continui con scoperte entusiasmanti nel settore della batteriologia; in 40 anni moltissimi batteri, causa di malattie infettive, erano stati isolati e descritti. Per i virus il discorso era molto diverso. Con l’epidemia di spagnola, scienziati e medici, impegnati nelle strutture sanitarie, si scontrarono con la frustrazione e l’impotenza. Non si era in grado di dare risposte certe, si percepiva che non era un batterio la causa della malattia, ma pur sospettando la natura virale si brancolava nel buio. In Italia, Giuseppe Sanarelli aveva ipotizzato un ruolo dei pappataci nella trasmissione dell’infezione, assimilando l’influenza alla febbre dei tre giorni; di tutto altro avviso erano l’igienista Canalis e il professor Marchiafava. Questi studiosi ritenevano la Spagnola semplicemente un’influenza, anche se più grave delle comuni forme catarrali. Una delle domande cui non si sapeva rispondere era perché la malattia risparmiava gli anziani o li colpiva in modo meno grave, mentre si accaniva con i giovani. In particolare morivano uomini tra i 30 ed 40 anni. Questa evidenza sembrava indicare l’esistenza di una difesa di tipo immunitario, acquisita dalla generazione che aveva conosciuto la pandemia influenzale del 1889-90, simile per gravità a quella del 1918. In Italia il Direttore del Laboratorio batteriologico della Direzione generale della sanità, Bartolomeo Gosio, investito della responsabilità di indagare sulle cause dell’epidemia, così si esprimeva in un comunicato del 6 ottobre “... è indubbio che a causare la malattia sia il bacillo di Pfeiffer. Altri batteri possono chiamarsi in causa come aggravante dell’infezione, ma ciò non muta anzi convalida il concetto che si tratti dell’identico morbo, onde fu colpita l’Europa nel 1889-90. Si tratterebbe di un ritorno pandemico, a cui speciali condizioni d’ambiente e di simbiosi batteriche vanno conferendo un carattere più o meno maligno”.
La “Spagnola” esordì in Italia con una prima ondata nella tarda primavera del ’18 ed ebbe caratteristiche benigne, la seconda si manifestò nell’autunno, infine la terza ondata iniziò nel dicembre e si protrasse durante l’inverno del 1919. Nel nostro paese l’epidemia colpì l’esercito in misura minore rispetto alla popolazione civile. La profilassi venne applicata meglio tra i militari nonostante le difficili condizioni di vita in trincea. Verosimilmente questo risultato alla complessa opera igienico-sanitaria svolta dalla sanità militare per prevenire e trattare le malattie trasmissibili. Erano i Centri di disinfezione dell’organizzazione sanitaria militare che si occupavano di trattare l’igiene degli indumenti e dei soldati all’arrivo e alla partenza dal fronte. Le prime epidemie circoscritte furono segnalate in maggio ad Assisi, Domodossola, a La Spezia, tra i militari della Marina; altre segnalazioni ci furono nelle province di Modena, Piacenza, Verona, Pisa. Torino e il Piemonte furono colpite a giugno, contemporaneamente a Bari e Taranto. Questa prima fase durò poco più di due mesi e di questo periodo, non essendo la malattia sottoposta a denuncia obbligatoria, non è possibile disporre di dati certi complessivi circa il numero dei colpiti.
Limitatamente a una armata italiana è possibile ricostruire la statistica dell’epidemia: furono segnalati 14.750 casi a maggio, 9.755 nel mese di giugno e 45 casi in luglio. Assumendo che la seconda fase sia esplosa in Italia, con le stesse caratteristiche osservate nel resto del mondo, in una relazione ufficiale svolta in ottobre al Consiglio Superiore di Sanità, il Direttore Alberto Lutrano, osservava che già da luglio la malattia, nei pochi casi segnalati, aveva cominciato a manifestare quelle caratteristiche maligne che durante il mese di settembre furono oltremodo chiare. La Calabria fu la prima regione ove si manifestarono queste variazioni del quadro clinico. Le prime due province furono quelle di Reggio e Catanzaro, poi Cosenza. Poco tempo dopo furono contagiate Palermo, Chieti, Caserta, Parma, Alessandria, Torino e la Liguria. Con la morte di due coniugi nel comune di Limbadi verso la metà di luglio, in seguito all’infezione influenzale, fu conferito, dalla Prefettura di Catanzaro, al Direttore della Stazione marittima di Crotone l’incarico di effettuare ricerche microbiologiche sul sangue e sull’espettorato dei due soggetti deceduti. Il quesito che virologi, epidemiologi e clinici si sono posti e sul quale continuano a indagare è come e perché l’evoluzione epidemica, dopo la prima fase primaverile, assunse le caratteristiche maligne che, a partire dal mese di settembre, determinò la morte nel mondo di decine di milioni di persone. Vastissima è la letteratura che si è occupata dell’argomento e le tesi proposte sono articolate e problematiche. Come già accennato, una sintesi della complessa materia potrebbe indicare che il virus pandemico del 1918 poteva provenire direttamente dai volatili. Infatti, secondo alcuni studiosi, il virus avrebbe infettato gli uomini adattandosi ad essi nella fase primaverile, poi sarebbe passato ai maiali e da questi sarebbe nuovamente transitato agli uomini, con aumento della virulenza, nella fase autunno-invernale. Il modello spiegherebbe perché chi contrasse l’influenza in primavera non si sia riammalato in autunno e in inverno. Si tratta di ricerche importanti che hanno comunque il limite di studiare un virus assemblato su materiale genetico di soggetti deceduti più di ottanta anni fa, con ricostruzioni di geni effettuate in laboratorio. Nell’Esercito italiano l’esordio della grave forma autunnale si verificò a metà agosto, un dato confermato dalla testimonianza fornita da un interessante documento ufficiale. Nella settimana precedente il 20 agosto, data della visita di una Commissione sanitaria a Celestano (Parma), sede del campo d’istruzione del 62° Fanteria, si era manifestata una grave epidemia di grippe. In pochi giorni, su 1.600 uomini, 500 avevano marcato visita e 13 erano morti. La causa dei decessi era attribuibile in tutti i casi a complicazioni in corso d’influenza dell’apparato respiratorio (broncopolmoniti o pleuropolmoniti). L’ipotesi ritenuta all’epoca più probabile, in relazione alla diffusione del contagio, faceva ritenere che questo era stato portato da soldati rientrati dalla licenza da paesi confinanti con la Svizzera. La tesi indicherebbe che in Italia il contagio abbia seguito diversi itinerari collegati ai movimenti di truppe. Alla luce di questo documento viene messa in discussione l’ipotesi che vede il porto di Brest - punto di sbarco delle truppe americane in Europa - come primo focus epidemico della seconda ondata e che pone la data del 22 agosto quale inizio della fase autunnale dell’epidemia nel nostro continente. I suddetti riferimenti temporali sembrano indicare che i foci epidemici siano stati diversi e contemporanei. Verso la metà di settembre, le prime notizie sulla diffusione dell’epidemia cominciarono ad essere pubblicate, e ciò conferma il fatto che ormai in diverse città l’epidemia si era accesa e alla fine del mese l’epidemia era estesa in tutta Italia. Le province più colpite erano, al Sud, Catania, Palermo, Caltanisetta, Foggia e Bari. Scorrendo i necrologi pubblicati sui giornali di quei giorni di settembre del 1918, emerge il numero impressionante di testimonianze di giovani scomparsi “nel rigoglio della giovinezza” e “per un fatale e improvviso morbo” e di donne appartenenti, in genere, alla borghesia italiana. Si era sgomenti perché quella malattia, che in pochi giorni cancellava la vita, colpiva prevalentemente giovani in buona salute lasciando stare vecchi e malati. Il quadro clinico poteva condurre a morte drammaticamente in pochi giorni con polmoniti massive o, dopo un’apparente remissione per complicanze cerebrali (encefaliti) o per gastroenteriti, più frequenti fra gli adulti. Ma le complicanze che si verificavano in numero maggiore si osservavano nel distretto polmonare, provocate da infezioni batteriche sovrapposte, e queste, in assenza di presidii terapeutici adeguati e in organismi debilitati, erano micidiali. Si osservava inoltre una spiccata tendenza alle emorragie (epistassi, sputo ematico), talora si apprezzava la presenza di esantemi. Sconcertava il fatto che, in quelle giornate di fine estate, si potesse morire di quella che le autorità sanitarie chiamavano influenza; lasciava perplessi che una malattia, in genere ritenuta benigna, prevalente nella stagione invernale, potesse falcidiare giovani nel pieno delle forze. Sulla stampa italiana traspariva l’incertezza generale che angosciava il mondo medico e scientifico sull’origine di quella strana sindrome. Esisteva un partito che riteneva trattarsi di due differenti epidemie, considerando quella primaverile “febbre dei tre giorni”, mentre quella comparsa a fine estate era a diagnosi anonima perché polinomia. L’altro partito sosteneva l’ipotesi che l’epidemia era unica, ovvero con identica causa tra l’epidemia della primavera e quella che si era palesata alla fine di agosto.
Si tentava in tutti i modi di rassicurare l’opinione pubblica. Nel tentativo di dare una spiegazione alle morti che si verificavano precocemente, si riprese la teoria della diatesi individuale, asserendo che i decessi erano più frequenti tra coloro che trascuravano la nettezza e l’igiene nelle abitudini di vita. Inoltre si sottolineava che gli esiti funesti si osservavano tra chi riteneva di poter sopportare la malattia senza mettersi a letto o decideva di rinunciare al periodo di convalescenza, riprendendo le attività lavorative non appena cessata la febbre. Se, come si è detto, l’orientamento generale faceva presupporre la causa della malattia di natura batterica, si stava però facendo largo l’ipotesi che a causare l’influenza fosse un virus ultra filtrabile.
È difficile stabilire quali furono i percorsi dell’epidemia nel nostro paese: le città sembravano essere flagellate più precocemente, maggiormente bersagliati erano i quartieri affollati, ove l’igiene scarseggiava, ma numerose erano le eccezioni. Dalle città capoluogo l’epidemia si spostava nei comuni della provincia, ove si osservava una diffusione più lenta. Il tasso di letalità, all’epoca avvalorato dalle autorità, era tra l’1 e il 2%, ma in certe città raggiunse l’8%. Nei centri abitati, ad alta densità abitativa, la durata dell’epidemia era più breve, dopo 20-30 giorni i casi nuovi tendevano a diminuire. Nelle città più importanti del paese si registrò una fase ascendente di un paio di settimane, con l’acme nella seconda metà di ottobre, con tendenza a decrescere in novembre. Secondo l’Istituto Centrale di Statistica, la regione che ebbe in assoluto il numero maggiore di morti fu la Lombardia (36.653), seguita dalla Sicilia (29.966). Le regioni con i più alti tassi di mortalità per Spagnola furono Lazio, Sardegna e Basilicata [29]. Va precisato che questi dati sono parziali e non riflettono assolutamente l’andamento dell’epidemia. Per la Spagnola non si osservò un maggior coinvolgimento delle classi meno abbienti rispetto alle più agiate, come di solito si rilevava nelle epidemie. In riferimento alla professione, gli italiani più colpiti furono quelli che per ragioni di servizio avevano frequenti contatti con i contagiati: infermieri, negozianti, autisti, telefonisti. La malaria, la tubercolosi, le malattie croniche di cuore furono tra i fattori predisponenti più importanti nei soggetti che ebbero un’evoluzione infausta. L’impressione generale fu che il sesso femminile sia stato più colpito rispetto al maschile, ma tale rilievo è viziato dalla sproporzione determinata dal tributo in vite umane maschili conseguenti al conflitto che, nell’autunno del 1918, incideva pesantemente sugli equilibri demografici del nostro paese.

Per comprendere appieno il livello del dibattito scientifico, che coinvolse molti dei nomi più importanti della medicina dei primi decenni del secolo scorso, occorre ricordare come il virus H1N1, responsabile della pandemia, venne isolato dal patologo dell’Armed Force Institute of Pathology (AFIP) Jeffrey Tautemberger soltanto nel 1997 , utilizzando tessuti polmonari dell’archivio di blocchi in paraffina di autopsie eseguite nel 1918 e tessuti di Inuit morti di “spagnola” e riesumati ottant’anni dopo dal pack dell’Alaska . Inoltre fino agli anni ’30, quando si assemblarono i primi microscopi elettronici, non fu possibile osservare capsidi virali al microscopio, benché l’esistenza di agenti filtrabili trasmissibili sia stata ipotizzata fin dall’ottocento e il virus del mosaico del tabacco definito come agente patogeno nel 1898. Alla fine l’influenza spagnola passò senza alcun vaccino nell’arco di 2 anni. Alcuno studioso ha mai spiegato perché , nonostante mai era stato messo a punto un vaccino, il morbo scomparve senza fare più ritorno con quella virulenza.



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